Tutti pronti sempre a mettere sotto scacco i sistemi elettorali. Ma se nessuno dovesse arrivare a un’ampia rappresentanza, può bastare il fatto di essere “arrivati primi” a giustificare un premio di maggioranza per formare un governo?
Dopo aver percorso tutto il tabellone di questo fantastico gioco che si chiama “politica”, eccoci pronti a ripassare dal via. E come ogni volta che ci si avvicina alla tornata elettorale, tutti a sparare a zero sulla legge elettorale e sui meccanismi che convertono in seggi i voti espressi dagli elettori.
Questi giorni antecedenti al voto se ne sentono davvero di tutti i colori sulla nuova normativa elettorale, da quasi tutte le forze politiche in campo, come se tra tutti non ci fosse chi questa legge elettorale l’ha voluta, chi l’ha persino votata, chi ha attaccato senza sosta l’Italicum o chi aveva definito quella ancora antecedente – il Porcellum – come il male assoluto. Possibile che nessuna legge elettorale va bene? Possibile che nessuno è soddisfatto, per di più, a priori?
Ciò accade poiché sembra che è che nessuno possa uscire trionfante dalle urne, allora la colpa di chi è? Del sistema elettorale che non assegna una maggioranza, ma è ovvio. E se per una volta provassimo, invece, a dimenticarci questo marchingegno di cui dovrebbero occuparsi luminari e ingegneri elettorali e valutassimo la situazione partitica? Potrebbe accadere che qualcuno si renda conto che la colpa, forse, non è del meccanismo con il quale convertiamo in seggi i voti, ma del fatto che forse qualche responsabilità ce l’hanno gli elettori da una parte e i partiti dall’altra. I primi che non esprimono un senso di fiducia ampio a nessuno e i secondi, che appaiono sempre meno in grado di fare sintesi per poter governare.
Se proviamo ad andare a ritroso, partendo dalle elezioni del 1994, le prime dall’avvento della così detta Seconda Repubblica e le prime anche con un nuovo meccanismo elettorale, la coalizione che vinse, quella di Forza Italia, Lega Nord e Alleanza Nazionale, nel proporzionale alla Camera, ottenne ben il 42,84% dei consensi, valsi 64 seggi, che sommati ai 302 conquistati nei collegi maggioritari, divennero una maggioranza reale in Parlamento (366). Due anni più tardi, nel ’96 quando ad imporsi fu l’Ulivo, la coalizione nel proporzionale ottenne il 43,39% delle preferenze pari a 58 seggi, che sommati ai 264 dell’uninominale permisero di arrivare oltre quell’asticella dei 315. Andando avanti, sempre con il Mattarellum, nel 2001, la coalizione della Casa delle Libertà arrivò al 49,56%, pari a 86 seggi, che sommati ai 282 ottenuti nei collegi uninominali garantirono a Berlusconi di governare, seppur con un rimpasto, per cinque anni.
Anche il Porcellum, un sistema nella sua natura proporzionale, malgrado le sue particolarità, ha garantito ove possibile una stabilità. Nel 2006, le incredibili ed uniche elezioni del 9-10 aprile, che videro vincere la coalizione di centrosinistra per una differenza in termini di voti di meno di 25 mila preferenze pari allo 0,07% dei voti per la Camera, vide i progressisti imporsi con un 49,81% contro il 49,74% degli sfidanti, ottenendo così il premio di maggioranza. Nel 2008, la coalizione con il Popolo della Libertà, la Lega Nord e il Movimento per le Autonomie si impose con il 46,91% delle preferenze, pari ad una differenza di oltre 7 milioni di voti con la coalizione sfidante, che ne garantì i 340 seggi a Montecitorio.
Nel 2013, come tutti ricordiamo, le cose sono andate diversamente. Ad arrivare prima fu la coalizione di centrosinistra capitanata da Bersani, che ottenne il 29,55% delle preferenze, conquistando il premio di maggioranza per la Camera. Il meccanismo diverso e più complesso del Senato, però, impedirono ai progressisti di ottenere la maggioranza anche nell’altro ramo del Parlamento. Ma se analizziamo i dati, con il centrodestra al 29,18% e il Movimento 5 Stelle al 25,5% era giusto che una coalizione, che nelle urne non aveva raccolto neppure il 30% dei consensi, non ottenesse una maggioranza assoluta in termini di seggi in entrambe le Camere.
Oggi siamo a parlare di un altro sistema elettorale, il terzo in meno di 25 anni, e ancora ci si domanda perché andare a votare se “probabilmente non vince nessuno”, o peggio accusando che “queste elezioni sono una farsa”. Bisognerebbe ricordare che è molto complicato garantire il potere dell’elettore e la stabilità politica dall’altra. A maggior ragione se siamo un regime Parlamentare, dove si eleggono i rappresentanti delle Camere e non chi guida il Governo. Che questa legge elettorale, quella che sperimenteremo per la prima volta il 4 marzo prossimo, ha sicuramente delle lacune in termini di influenza reale di “scelta” dell’elettore, per via di candidature multiple e listini bloccati nella quota proporzionale. Ma se è vero questo e se si tiene in considerazione che esemplificando al massimo il Rosatellum è una via di mezzo tra il Mattarellum e il Porcellum, se nessuna coalizione o partito dovesse arrivare al 40% come possibile, è giusto, doveroso, obbligatorio e responsabile che siano i partiti – anche coloro che non si definiscono tali – a trovare in Parlamento il modo di formare una coalizione di Governo. Questo per due motivi fondamentali: uno, perché lo sancisce la Costituzione, difesa sempre troppo a fasi alterne; e due, perché se i partiti non riescono a far sintesi prima della campagna, ampliando l’offerta elettorale e le coalizioni, di conseguenza è facile che gli elettori non siano risolutivi con il voto. Dunque, come accade in qualsiasi democrazia, in questi casi, vince sempre e solo la sintesi e la mediazione. Basti guardare alla Germania solo per citarne una.