Non sono di certo un esperto di lingua italiana, ma ne sono professionalmente un fruitore.
Fatta questa doverosa premessa ci sono delle cose che davvero non tollero. Tra le tante, c’è quella di tentare di far flettere la lingua alle nostre sensibilità, un po’ come se l’italiano fosse qualcosa di personale. Ho sempre creduto che una lingua sia fatta di storia, cultura e usanze tramandate nel tempo ed evolute con il tempo. Che raccolga in essa l’essenza di ciò che è un popolo. Ancor più, in un mondo sempre più fluido, sta diventando l’ultimo vero pilastro di identificazione culturale, e tutto dovremmo fare fuorché minarne le fondamenta.
Attacchi come quelli che ogni giorno fuori da ogni regola e consuetudine, oltre che da ogni vocabolario, identificano una qualsiasi parola con le finali maschili o femminili a piacimento personale ne sono un esempio. Non credo che questo lo si possa leggere come un segno di uguaglianza di genere, ma come un’enfatizzazione di una rivoluzione che dovrebbe essere culturale e che invece sta diventando una crociata. Fino ad oggi ho visto questa indiretta imposizione da parte di opinion leader come una battaglia personale, seppur a volte nella quasi mancanza di rispetto di chi prova tutti i giorni a scrivere, o a porsi, nel modo giusto. Ma come battaglia personale, l’ho sempre rispettata seppur non condivisa.
Ad oggi le cose cambiano perché quando si inizia a parlare di “circolari” e “disposizioni” (seppur interne) vuol dire che quella che veniva concepita come una rivoluzione culturale sta diventando una questione personale, per di più istituzionalizzata. Qualcosa che non può non solo non essere condivisa ma neppure rispettata, in quanto perderebbe anche il senso stesso del fine nobile.
Scrivendo per mestiere, voglio avere la libertà di usare il termine sindaco e non sindaca, ministro e non ministra e ancor più presidente al posto del cacofonico (pensate, questo vocabolo è già nel dizionario) presidentessa. Anche perché non vorrei un giorno ritrovarmi a leggere di un “astronauto”, un “atleto”, un “pediatro”, un “commercialisto” e così via. E oltre alla bruttezza di tali termini e al non risolvere la questione della parità di genere, che troppo spesso pensiamo di affrontare con atti aventi forza di legge, avremmo anche messo in dubbio ciò che unisce, forse più della Costituzione e sicuramente più delle istituzioni il bel Paese: ovvero la lingua italiana.