Come si esce da una crisi di governo? Con i numeri parlamentari che garantiscano la formazione di un nuovo esecutivo o con il ritorno alle urne. In questo caso specifico, a seguito della dimissioni di Matteo Renzi c’è un secondo fattore: che ci sono due leggi elettorali diverse per eleggere due rami del Parlamento fondamentalmente identici e che differiscono tra loro solo per elettorato attivo e passivo.
Allora come si esce da questa crisi di governo? Sempre allo stesso modo: o con una maggioranza parlamentare che possa sostenere un nuovo esecutivo o con il ritorno alle urne che non è detto corrisponda alla definizione di una maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Tradotto servirebbe una modifica alla normativa elettorale attraverso un esecutivo di scopo, che punti ad uniformare le due normative vigenti (Italicum per la Camera, Consultellum per il Senato), ma su tutto ciò pende una sentenza della Consulta che non arriverà prima del 24 gennaio.
La domanda da porre allora diventerebbe: ci sono i numeri in Parlamento per sostenere un nuovo governo? Tecnicamente dovremmo pensare (perché sappiamo che in politica tutto può essere messo in discussione), che un reincarico al premier uscente, per il così detto Renzi bis, garantirebbe la formazione di un esecutivo con una maggioranza analoga se non identica, a quella che abbiamo conosciuto finora. Il problema è che difficilmente Renzi accetti di guidare un esecutivo di scopo. Allo stesso tempo, il premier dimissionario si sente troppo debole per formare un governo che arrivi a fine legislatura. Tradotto è difficile possa accettare un nuovo incarico in questa fase.
A questo punto il problema del Presidente Mattarella è tutto legato ai numeri. Perché se alla Camera la questione algebrica è abbastanza semplice (la maggioranza è fissata a quota 316 deputati e il solo gruppo del Pd è composto da 301 membri, quindi con un accordo con Area Popolare [30] da una parte, o Sinistra Italiana [31] dall’altra, la maggioranza sembra a un soffio), al Senato si “gioca” su altre cifre. Tutto questo senza considerare che al momento lo stesso Partito Democratico appare quasi un agglomerato di correnti personalistiche, dove renziani e franceschiniani sembrano non essere più sulla stessa lunghezza d’onda. Ma questo per il momento potrebbe riguardare un’analisi diversa dell'emisfero progressista. La verità è che sembra difficile si possa creare una maggioranza politica “di parte” in un frangente così complicato come quello del post referendum. A palazzo Madama, infatti, il gruppo di maggioranza è sempre quello del Pd, ma con una composizione che non supera i 113 membri, ben lontano dai 158 necessari sulla carta. In più c’è la questione dei senatori a vita che fanno alzare l’asticella della fiducia a 161. Se si provano a sommare i voti dei democratici in toto a quelli di Area Popolare (29) non si va oltre quota 142. Allora servirebbero i numeri delle Autonomie per arrivare in modo risicato a 161 sperando di recuperare qualcuno dai 18 di Ala o più difficilmente dai 28 del gruppo Misto. Una missione complicata, anche politicamente parlando dopo la netta sconfitta al referendum.
Tra l’altro in questa analisi numerica subentrano gli altri problemi accennati prima. Perché il Pd è diviso al proprio interno. I renziani sono per (governo di larghissime intese del “tutti dentro”) per riscrivere la legge elettorale e tornare al voto nel giro di tre quattro mesi al massimo. Alcuni parlano di una “pattuglia” di fedelissimi del premier dimissionario di un centinaio tra deputati e senatori, dove la maggior parte di questi, però, dovrebbero sedere a Montecitorio. Comunque vada, sulla base di queste analisi, si potrebbe anche paventare un’ipotesi che in caso di disaccordo, potrebbe anche capitare che qualcuno non voti la fiducia ad un esecutivo non ben visto da Renzi.
Ma partendo, invece, dal presupposto che i democratici si muovano compatti, non per un esecutivo che arrivi a fine legislatura, ma per garantire un governo stabile per tenere fede ad impegni internazionali e a portare avanti la politica del Paese mentre il Parlamento lavori ad un sistema elettorale che comprenda sia Camera che Senato, si aprono dei calcoli che potrebbero lasciare sempre irrisolta una variabile: quella della riuscita di un esecutivo di scopo. Perché per avere i numeri, servono delle convergenze politiche sulla materia elettorale, che così scontate non sembrano.
I Cinque Stelle, infatti, fiutando l’aria di diventare partito di maggioranza nell’elettorato, sembrano orientati su un sistema stile Italicum, anche senza doppio turno, eventualmente, dove non sono previste coalizioni e il premio andrebbe alla lista con più voti. Il Pd su questo è diviso. La minoranza dem, è da sempre stata contraria all’impossibilità di fare coalizioni, e ora lo è ancor di più. Senza considerare che il bacino della minoranza potrebbe addirittura ingrossarsi tra i democratici. Mentre la maggioranza ambiva (e teoricamente lo predilige ancora, un sistema in stile maggioritario). Della serie: primo possibile accordo fallito. Forza Italia, vorrebbe un ritorno al proporzionale, da sempre sistema ben visto dagli azzurri. In più c’è la questione delle preferenze che non è mai andata giù a Berlusconi, il quale tra l’altro gradirebbe uno slittamento della competizione elettorale, seppur diversi autorevoli esponenti forzisti premono per il voto anticipato. Poi ci sono i gruppi “minoritari”, come quelli “adiacenti” al Pd, come Sinistra Italiana e Area Popolare che gradirebbero le coalizioni e che non disdegnerebbero un ritorno al proporzionale tipo il Consultellum. Senza considerare che gli stessi potrebbero puntare i piedi su eventuali soglie di sbarramento. Infine c’è la platea di coloro che preferiscono andare subito, come ad esempio la Lega Nord.
Lavoro duro quello del Presidente Mattarella, che non solo deve ascoltare le istanze dei gruppi e le proposte, ove ce ne sono, di personalità sulle quali lavorare per formare un esecutivo. Oltre questo deve tenere vicino una buona calcolatrice, e pensare vagamente a quali sono le istanze dei partiti per lavorare su una legge elettorale da poter approvare in tempi brevi, sia che l’eventuale governo che chiede la fiducia sia di scopo, che politico o tecnico (per arrivare a fine legislatura). Una situazione di stallo elettorale che dovrebbe farci propendere a non ritirare la tessera elettorale usata pochi giorni fa, perché dalle impasse, in democrazia se ne esce con il voto. E al voto probabilmente saremo chiamati a breve, pur sapendo che quel tanto osannato potere del cittadino potrebbe dissolversi in una bolla di sapone all'indomani dello spoglio, se prima non si condivide e si scrive una nuova legge elettorale.