venerdì 1 luglio 2016

RACCONTI - Un'alba soffocata

Racconto con cui ho partecipato al concorso letterario "Caffè Corretto 2016"

L’ultimo sole d’ottobre al tramonto fiammeggiava alla finestra e giù dalla strada saliva invece potente il lamento di un autoradio di passaggio, quando lui finalmente disse: “No. Io questo non lo faccio”. Poi girò le spalle e venne via. (Incipit Antonio Pennacchi)

Voltandosi si perse l’ultimo bagliore di luce della giornata, mentre espirava denso fumo grigio che veniva da un sigaro toscano. L’uomo dall’altra parte del tavolo, in un gessato italiano, godeva del chiarore di quell’ufficio statale, dei calendari delle forze armate rigorosamente elencati per anni su una bacchetta di legno color mogano inchiodata al muro. La sua espressione era interdetta, pareva quasi penetrante. Probabilmente si stava domandando perché lui non capiva, ma non parlava. Lo scrutava.
Lo stava facendo già prima quando gli dava le spalle nel silenzio di quel tramonto fiammeggiante, guardando dalla finestra quel chiarore illuminare le cupole del rinascimento. Il clima aridamente impietrito dal silenzio, imponeva un saluto fugace o un’accesa riflessione ad alta voce, ma Lucio, che emergeva a intermittenza dalla nube del suo sigaro sembrava togliersi la maschera di circostanza per indossare quella dell’indifferenza. Carlo, invece, aggrottando le rughe che gli solcavano la fronte, contando il tempo nel quale i loro destini s’erano incrociati, mostrava l’espressione triste di chi si aspettava un altro tipo di risposta.

“Neppure in nome della nostra amicizia?” Timidamente provava ad affermare scuotendo il gessato disegnato sul vestito. “Fuori di qui! Vigliacco!” Urlava con la voce rauca e cavernosa di fumo, Lucio. L’amicizia e il rispetto uscivano dalla stanza di quell’ufficio pubblico insieme all’eleganza di Carlo, che si accompagnava alla ventiquattrore nera della quale non si liberava mai. Il sole era ormai scomparso da tempo dai tetti delle case e dai campanili delle chiese. Ma lui era tornato lì a quella finestra.

Non c’era più il rombo dell’autoradio a ricordargli il momento passato. Ma non servivano le coincidenze a riportare i ricordi in un continuo oscillante aneddoto che ringhiava di passato e presente. Dopo qualche ora, quando a mozzichi l’aria s’era mangiata il toscano poggiato nel posacenere e la luce del giorno aveva lasciato posto alla penombra della notte, caratterizzata da una porzione di Luna, Lucio dimesso, rilegava un fascicolo che aveva sulla scrivania e strappando il cappotto dall’attaccapanni, dopo aver salutato il collega della stanza accanto, salpava verso casa. Il viaggio era breve ma intenso, come tutti i pomeriggi.

La brezza del periodo saliva frizzante dopo il caldo del giorno, e i passi accompagnavano verso la dimora una mente che scaricava i pregi e i difetti di un mestiere fatto di continui presunti torti altrui. Quella sera, però, Lucio si sentiva giusto. Di una correttezza che gli era stata restituita da quell’uomo in vestito elegante che conosceva bene. Aveva in bocca un sapore di amaro che non era dovuto ad una riflessione più ampia sul suo mestiere, bensì a quella che era stata la proposta irricevibile di Carlo.

Arrivato a casa, come sempre, richiudendo la porta d’ingresso aveva provato quel senso di protezione che risuonava nella voce soave del saluto affettuoso della moglie. Il profumo della cena era il secondo tassello di un puzzle che si completava sempre con il saluto della piccola di famiglia, Lilly, un barboncino che aveva preso il posto dei figli che non sarebbero mai arrivati, a causa di una sterilità che era costata troppo cara anche alla chioma di Lucio, ormai assente. Marta faceva la mamma con Lilly ed era la moglie perfetta per ogni tipo di uomo. Amava cucinare, e appagare voglie e fantasie del suo consorte, in più non le piaceva il lavoro del marito, pertanto evitava di fare domande. Lui che era riservato di suo, in questo modo non doveva essere evasivo e la vita scorreva tra il continuo oscillare di giorni e notti che imperterriti si rincorrevano tra albe soleggiate e tramonti più o meno piovosi. Dopo cena qualche parola solitaria incuriosiva una brama d’amore celata nel cuore dei due, che a mozzichi continuavano a sfiorarsi l’animo.

Ma quella sera a Lucio venne voglia di dire tutto: “Oggi ho visto Carlo”. Lei che nel frattempo rassettava la cucina, rallentava alzando lo sguardo, accennando ad un’accondiscendenza non troppo entusiasta. “Mi ha chiesto…” provava a dire lui mentre un dolore gli stringeva lo stomaco, quasi strozzandolo. Lei gli andava incontro con fare tenero, cogliendo la sofferenza per quell’emotività che accompagnava il consorte. “Cosa ti ha chiesto?” Domandava lei con fare dolce, accarezzando la fronte dell’uomo, che per natura usava essere un tipo tutto d’un pezzo. Ma la compattezza d’animo gli stava irrigidendo il cuore. Il dolore che contraeva il muscolo del pettorale continuava ad allargarsi in modo ansimante. Il respiro bruciava. Lui la guardava, cogliendo un senso di solitudine. Quella stessa solitudine che si prova all’imbrunire nei giorni d’inverno. Forse intuiva che quello era l’ultimo volto che avrebbe visto. Capiva che bisognava dire qualcosa, esprimere un sentimento. Ma si domandava più che altro cosa fosse successo se avesse accettato il consiglio dell’amico. Quello stesso consiglio che non aveva avuto modo di esprimere a quel volto tenero, biondo, soave, che aveva accompagnato i dieci anni della loro sobria vita insieme. “Lucio!” Lo chiamava la moglie, ma lui era troppo lontano per sentirla. Lontano come il suono di quella sirena dei sanitari che tanto ricordava quella dell’autoradio di qualche ora prima. Lontano come il freddo che un pizzico alla volta avvolgeva il corpo di quell’uomo. Lontano come i loro cuori che si distanziavano, questa volta definitivamente. Alcune lacrime scure, a lutto, riempivano il volto candido della sposa, che d’un tratto diventava vedova. L’aria fresca di quella sera d’ottobre si trasformava nel freddo tenebroso dell’autunno che tendeva verso l’inverno.

Marta era lì, in un piccolo angolo di luce del loro letto matrimoniale, con il dubbio di cosa avesse strappato il suo uomo dalla vita, da lei. Alcuni affetti vicini e lontani, si avvicendavano in silenzio e compassione in quell’oscurità del modesto appartamento. La piccola Lilly evitava guaiti e ululati, donando la sua ultima tenerezza a chi l’aveva coccolata come una figlia. D’un tratto, quella notte immensa e così sfuggente, veniva scacciata via dal primo sole di una nuova giornata autunnale. Marta aggrappata ai ricordi, li leggeva nel riflesso della finestra della loro camera da letto che quella notte aveva lasciato libera da scuri e persiane.

Nell’alba di quel giorno così assente, vedeva una figura famigliare che come un suono faceva rimbombare nel proprio animo le parole del suo defunto marito “Oggi ho visto Carlo”. Indossava il solito vestivo elegante e scendendo dalla propria auto in compagnia dell’inseparabile ventiquattrore, si avviava verso il lutto. La casa ormai era spoglia di voci, di affetti. Marta era rimasta con la sola Lilly, la quale non si alzò dai piedi della coltrice per andare ad attendere l’amico di famiglia. La porta socchiusa cigolò quel tanto che bastava per fargli andare la vedova incontro, che l’accolse in un abbraccio dal sapore salato di un pianto liberatorio. Il silenzio li avvolse per qualche secondo. Il cuore dei due batteva con un intervallo di irregolarità che aveva il sapore di un ritmo musicale. “Dov’è? Voglio vederlo”. Domandava con fare scosso l’uomo con il gessato, mentre con lo sguardo cercava di penetrare l’animo della dolce Marta.

Lei lo prese per mano, lo accompagnò nella stanza. Lucio era lì, sdraiato supino, vestito con la divisa che tanto amava e gli onorava l’animo. Il rosario stretto tra le dita, forse, non l’avrebbe voluto se fossero state rispettate le sue volontà, ma in quel momento, lei non si sentì di privargli a prescindere l’abbraccio di Dio. Carlo sentiva stringergli il petto in un senso di dolore, concedendosi un gemito e qualche lacrima. La mano di Marta faceva incredibilmente forza. “Cosa gli hai detto oggi?” Curiosamente domandava la donna, che fremeva per sapere cosa gli stesse dicendo il marito prima di andarsene. “Te l’ha raccontato?” Sbarrava gli occhi Carlo. “Se n’è andato mentre stava cercando di farlo”. L’uomo si riempiva gli occhi di lacrime. Sentiva tutto il peso delle sue azioni sulla vita che s’era strappata dal corpo del suo amico, che ora in divisa sembrava dormire, su quel letto dinanzi a lui. Dopo una specie di singhiozzo, guardando fuori il sole che infuocava un’altra giornata d’ottobre, mentre il brusio della strada saliva fino alla finestra, in una sorta di ricordo offuscato del pomeriggio prima diceva: “Gli e l’ho detto Marta. Gli avevo detto di noi. Che doveva farsene una ragione. Ma lui non mi aveva voluto dare ascolto. Cacciandomi”. Lei si avvicinava le mani alla bocca in senso di incredibile sorpresa; poi scoppiava in un pianto. Non riuscendo a dare senso alle parole, non le pronunciava.

Carlo guardava la donna che amava e l’amico con cui era cresciuto. Poggiava d’istinto la ventiquattrore sul pavimento sabbiato di quella casa. Un gesto inconsueto per chi nel rincorrersi di albe fredde e tramonti gelidi dell’inverno non amava rischiare di perdere i suoi più grandi segreti professionali distanziandosi più del dovuto dal suo ufficio portatile. Le distanze a volte segnano il tempo, altre i sentimenti. Erano questi ultimi che l’uomo con il gessato voleva colmare dalla donna coi capelli biondi. Un passo verso di lei doveva lanciare un abbraccio che tardava ad arrivare, quel tanto che faceva sentire Marta ancora più sola, ancora più vedova. Carlo tentava di stringere a se la sua amante, proprio mentre il sole iniziava a farsi spazio tra le tenebre della notte. Ma lei lo allontanava, come il caldo afoso di quell’ottobre si rifiutava di concedersi all’inverno. “Ho capito” era il silenzioso e laconico commento dell’uomo che con le lacrime agli occhi voltando le spalle, si dirigeva verso la porta, poggiando delicatamente il chiavistello al resto della serratura senza fare rumore, per non disturbare la morte. Marta era rimasta apparentemente sola nella vita. Ma in compagnia di suo marito a cui ora mancava respiro e parole.

Un senso di rimpianto accompagnava il cuore della donna che sentiva essere tristemente vuoto, come in quel momento era anche il loro nido d’amore. Un rimpianto di cose non dette, di verità nascoste, di frasi sbagliate e occasioni mancate. Un eredità che avrebbe portato nel cuore per sempre. Seduta sul letto, mentre toccava quelle mani fredde come il marmo che stringevano il rosario in modo fittizio, uno strano calore la prendeva da dietro. Un accenno di sorriso le riempiva il volto. Sapeva essere il primo sole di un’altra caldissima giornata d’autunno, ma per lei aveva un altro sapore, quello del suo Lucio che l’abbracciava. Si sentiva protetta, seppur sola. Amata anche se vedova. Nuda anche se devastata dai segreti che ogni uomo e ogni donna portano nel cuore. In quel gesto, che mischiava amore con suggestione, il semplice ruotare del capo portava la donna a scorgere una strana visione. La ventiquattrore di Carlo era lì, ferma, sola, immobile su quelle mattonelle sabbiate dall’odore di lutto. Per un attimo non riusciva a farsi una ragione, poi fu l’istinto o la voce dell’animo di Lucio che le sussurrava nel cuore. D’improvviso Marta si alzava dal letto, prendeva la ventiquattrore e la poggiava su un tavolo.

La osservava, scrutandola, come se fosse una visione degna di chissà quale alto segreto. In realtà si sentiva sola, abbandonata dal marito che si era lasciato corteggiare dalla morte, e lasciata nel dolore dall’amante che era fuggito vittima di un senso di colpa che non riusciva né ad affermare, né a condividere. Le domande che attanagliavano la donna erano troppe, circa il lavoro di Carlo, di presunti segreti mai svelati neppure ai propri amici e di cose che solo lui era a conoscenza perché rinchiuse in quella valigetta di pelle nera. Bastava un semplice gesto con due dita di una mano. Un semplice “tac” ad aprire la ventiquattrore. Così come d’improvviso, perché si sa che la curiosità va oltre ogni stato emotivo, Marta aveva aperto la valigetta. Dentro sembrava esserci di tutto. Incartamenti, un’agenda spessa di colore marrone, dei bandi di gara del Comune e alcuni documenti del Tribunale. Tutto sembrava confuso agli occhi della vedova. Così, sfruttando quel sole che entrando dalla finestra illuminava l’interno della ventiquattrore, lei rassettava carte e leggeva nomi, sigle e numeri senza capirci nulla. Ma è sempre una questione di fiducia. Una fiducia, quella tra Marta e Carlo che sembrava essere d’improvviso evaporata.

Per questo aveva deciso di aprire l’agenda dove c’era il segno. Una serie di cinque nominativi vedevano accanto due lettere a contraddistinguerli con “sì” o “no”. Tra questi c’era anche il nome di Lucio che rientrava nella seconda opzione. Marta non capiva cosa significasse, poi vedeva un piccolo dispositivo elettronico, un registratore audio, e d’istinto premeva “play”. Due voci discutevano animatamente, una era quella del suo amante, l’altra non l’aveva mai sentita. Il tema sembrava essere una questione di soldi. Tanti soldi. Mandava avanti la registrazione, adesso c’era anche Lucio. I due parlavano di cose strane, ma non di affetti, né tanto meno della donna che condividevano. “Pensaci è un’occasione” spiegava Carlo a Lucio. “A cosa dovrei pensare? Io ho una morale, un’etica professionale” spiegava fiero nell’audio il marito di Marta. “Ma hai una moglie, puoi arrotondare…” ribatteva l’uomo con il gessato elegante, che poi aggiungeva “lo sai, siamo entrambi servitori dello Stato. Io gestisco il potere, tu lo tuteli. Diamoci una mano, tu chiudi un occhio, siamo tutti più sereni e la tua tasca sarà più piena”. Era su questo punto che Lucio, dopo essersi alzato, guardando fuori dalla finestra mentre il sole di ottobre fiammeggiava al tramonto, osservava “No. Io questo non lo faccio”. “Neppure in nome della nostra amicizia?” Chiedeva con fare remissivo Carlo. “Fuori di qui! Vigliacco!”.

La registrazione si concludeva con dei passi e una porta che si richiudeva. Marta era perplessa, attonita, rattristita e incredibilmente abbandonata dalla fiducia sia dell’amore che della passione. Aveva perso da poche ore l’uomo che con i propri limiti e difetti gli era stato accanto per diversi anni di matrimonio, ma ora avrebbe perso definitivamente anche il suo amante, Carlo. In una frazione di secondo, infatti, decideva di consegnare quella valigetta e il suo contenuto nelle mani di qualche collega di Lucio. Carlo, meritava di pagare per i suoi errori, i presunti ricatti e i tentativi di corruzione. A lei non spettava altro che guardare avanti. Partendo dall’unico affetto sincero e incondizionato che le era rimasto, quello di Lilly. Mentre fuori, il primo sole del mattino scaldava tutta la stanza e giù dalla strada saliva il rumore di un clacson che mischiandosi a quello delle campane della vicina chiesa, ricordavano che ricominciava la vita, anche dove sembrava essersene andata per sempre.

Simone Nardone