Io sono di quella strana e fortunata generazione nata a fine anni ’80, che non ricorda i mondiali in Italia perché era troppo piccolo, ma che per anni ha avuto nell’autoradio compilation con “Notti Magiche”. Sono di quelli che ha rarissimi ricordi dei primi anni di vita, dicono sia normale, ma che ricorda con profonda precisione le lacrime di Baggio e Baresi e il volto di Pagliuca in quei rigori ad Usa ’94. Maledetti rigori, seppur al singolare, che solo due anni più tardi, dai piedi di Zola, ci buttarono fuori dall’europeo al girone: sembrava uno scandalo, ma con il tempo ci avremmo fatto l’abitudine.
Sono anche tra quelli che ricorda quei due tiri dell’ultimo Baggio in nazionale che accarezzarono la traversa ai mondiali in Francia e tra quelli che si erano illusi che i miracoli calcistici a volte si colorano di arancio e durano anche più di 210 minuti. Ma non è sempre così. Anzi. Quel gol di Wiltord non lo dimenticai per sei anni. Ci sono volute altre tre grandi competizioni, altri due mezzi fallimenti, uno scandalo sportivo, una delle più grandi rose azzurre degli ultimi 30 anni e una grandissima dose di fortuna. Ma io sono di quella generazione che ha alzato la coppa con Cannavaro che si è tuffata con Buffon, che ha abbracciato Grosso, che ha preso la testata da Zidane e che la mattina dopo è andata a discutere la maturità.
La storia di ognuno di noi, in questo strano, incredibile, assurdo e fantastico Paese si colora di azzurro anche se non ce lo abbiamo sulla bandiera. Si tratta di qualcosa di intimo, personale che ti sparge ricordi, sensazioni e volti che si scrivono e sovrascrivono nell’anima ad ogni partita. È sempre stato il nostro modo di essere patriottici, forse l’unico. Abbiamo affrontato crisi, ci siamo distratti da problemi, abbiamo fatto gli allenatori per più tempo di ogni commissario tecnico e più di ogni fantacalcio, perché noi siamo italiani.
È per questo che quel richiamo alla “non vittoria” di ieri è sinonimo e allo stesso tempo acronimo di sconfitta, disfatta, fallimento. Un mondiale senza Italia non sarà la stessa cosa né per la Russia, né per nessun altra potenza del calcio, ma sarà diverso, troppo diverso soprattutto per noi. Perché nessuno dovrà trovare il modo di prendere ferie e permessi, organizzarsi il lavoro in base ai match degli azzurri. Sarà un’assenza nazionale, un estate senza l’Italia del calcio è qualcosa che ci renderà meno sereni, meno leggeri, meno italiani. Non sono io a dover puntare il dito e chiedere la testa di qualcuno, ma abbiamo bisogno di risollevarci, di ricominciare e non si può fare con chi ci ha fatto vedere il fondo. Che ognuno si assuma le proprie responsabilità, per ripartire dalla passione, dal calcio, da quella maglia azzurra che ha accompagnato le nostre vite e scandito le nostre estati biennali, facendoci aggregare, sorridere piangere, esultare, urlare, sbraitare, litigare, ma che ci ha resi ogni volta un pochino di più ciò che siamo oggi.
Se c’è una cosa che non manca a questo popolo, a questa nazione così assurda e così fantastica sono le emozioni, dettate da questa passione, che spesso se non sempre si incarnano nel calcio. Lasciateci almeno questo. Vi prego. E se per farlo, per tornare ad essere grandi c’è bisogno di purgatorio, beh, adesso ce lo abbiamo. Ma non sprofondiamo nell’inferno calcistico, ci è chiesto, vi è chiesto, di tornare ad essere grandi, o perlomeno di tornare dove la nazionale azzurra merita di stare.