LO IMMAGINO
Da sempre spostavo quei preziosi tessuti fiorentini per osservare il maestro all’opera. Sì, Leonardo era unico in quel suo modo di fare, non si limitava a dipingere, scolpire o progettare: lui creava. Ogni sua opera era frutto di una precisa intenzione, ogni suo strumento era usato con cura e maestria, ogni minimo dettaglio era riprodotto con fedeltà. Era la sua grandezza e lui ne era consapevole.
Ma per chi, da umile servo, spesso relegato lontano dalle stanze dell’arte, aveva la fortuna di osservare da vicino qualcuno che prima immaginava, poi progettava e infine realizzava qualcosa di grande, la sorpresa era immensa, anche se non inaspettata.
Eppure, su un’opera rimasi realmente a bocca aperta. Non fu “L’ultima cena” o “La Dama con l’ermellino”. Fu quel disegnino che poi divenne il suo dipinto più celebre, quello che lo tormentò più di quanto lui stesso si tormentasse. Non riuscivo a capire se quel senso di incompiutezza, che poi lasciò nel dipinto senza firma, fosse dovuto a qualcosa che non era riuscito a realizzare come voleva o semplicemente a una sua insoddisfazione. Eppure è il suo capolavoro, controverso, così asimmetrico e allo stesso tempo così perfettamente imperfetto.
La precisione del maestro toscano era così unica che non affascinava, lasciava semplicemente senza parole.
L’ignoranza tutta italiana, ha fatto radicare nell’immaginario collettivo che quell’opera i francesi ce l’avessero rubata. In realtà non è così. Era con Leonardo quando morì in terra transalpina.
Un immenso artista che non riuscì a completare un semplice dipinto. Mi sembrava strano, sbagliato, portava con sé il sordo rumore della pigrizia che lui non aveva. Capii solo alla sua morte che quel quadro per lui non era solo un lavoro, era parte di sé, lo aveva fatto soffrire, ma lo aveva anche aiutato, sostenuto, guidato, e proprio per questo aveva deciso di non separarsene mai.
Simone Nardone